Resilienza e autenticità

L’ora più bella: l’ora di andare al cinema

C’è la luna piena, un uomo seduto, una donna che se ne va. Torna indietro: “Non volevo dire quelle cose”. Cominciamo dalla fine di questo film di Lone Scherfig (L’ora più bella, 2016) per descrivere l'immersione nel bisogno contattato e ora in figura. Catrin Cole tornando sui suoi passi ha deciso di vivere autenticamente la sua vita, con l’uomo che ama e il lavoro che la fa sentire viva.

Inghilterra, seconda guerra mondiale. Catrin viene assunta per “dare un tocco femminile” a sceneggiature di film di propaganda bellica. Ancora una volta il cinema si fa metafora di percorsi di vita. Catrin incarna il femminile che ha integrato l’Animus. Non rinuncia alle sue idee e le rende originali. “È piena di entusiasmo in questi giorni (...) questo lavoro la esalta, la tiene in vita, autenticamente, emotivamente, nel costruire le scene” - si sentirà dire da Buckley, produttore e suo futuro amore. Catrin affascina, cattura e fa innamorare, perché le sue immagini si ispirano a un'esperienza nuova, moderna, emancipata. Le immagini che Catrin riesce a produrre sono le più vere, quelle che raccontano si sé. Non c’è finzione nel raccontare una storia, perché la storia appartiene alla collettività e questo è il paradosso del cinema. Attraverso di esso, che è finzione, è possibile attingere a quanto di più autentico è dentro di noi, perché le immagini hanno a che fare con l’inconscio.

L'ora più bella è ambientato nel passato, ma incontra un dramma presente, la guerra, a testimonianza che quello che sentiamo di raccontare appartiene alla storia dell’umanità che purtroppo si ripete.

Nel film, bombardamenti e distruzione si alternano ai tipici paesaggi selvaggi e vitali del Devon: “Mentre giravamo nel Devon mi sembravi così piena di vita”.

Catrin attraverso la sua sceneggiatura trova quella spinta vitale che la guerra naturalmente censura. Lo fa mettendo in scena un’altra guerra che rivendica l’uguaglianza tra maschile e femminile, in cui viene coltivata la speranza che anche una donna può salvare vite: “quando la vita è così precaria è un peccato enorme sprecarla”. Avvalendosi di una storia vera, Catrin mette in scena quello che sarebbe potuto accadere, anche se nella realtà non andò così. Il pubblico per accedere alle proprie emozioni non ha bisogno di letteralizzazione, ma di immagini, metafore della storia collettiva.

È il grande dono che fa il cinema.

"Fa’ che sia un lieto fine”.

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