Stand by me

Ricordo di un’estate

Vedere “Stand by Me” è come riaprire una pagina di diario, piena di emozioni non dette. Il film racconta con delicatezza l’adolescenza e intreccia temi cari alla psicologia come il valore del gruppo, il gioco come spazio di passaggio, le ferite familiari e il desiderio di appartenenza. Un viaggio che mostra come la verità risieda nella molteplicità.

Stand by Me – Ricordo di un’estate è un film del 1986 diretto da Rob Reiner, tratto dalla novella Il corpo (The Body) di Stephen King.
[ATTENZIONE: SPOILER!]
Il film si apre con l’immagine di Gordie da adulto fermo davanti al volante nel suo pickup: appare attonito e pensieroso, perché ha appena appreso dal giornale che il suo amico d’infanzia Chris ha perso la vita in un’aggressione. Questo risveglia in lui il ricordo di un’estate, quella in cui lui e i suoi amici diventarono grandi. La voce fuoricampo comincia a raccontare: “Non avevo ancora 13 anni la prima volta che vidi un essere umano morto. Fu nell’estate del 1959, molto tempo fa, ma solo misurando il tempo in termini di anni”.
Questo capolavoro cinematografico racconta con rara sensibilità l’amicizia e la scoperta del mondo, giorno e notte, dentro e fuori dai binari – location che accompagna il gruppetto per tutto il viaggio. Il luogo di partenza è la cittadina dell’Oregon dove vivono e che fino a quel momento ha rappresentato per loro “il mondo intero” – come dice Gordie – nonostante le piccole dimensioni, e dove si trova la base dei ragazzi, la casa sull’albero: lo spazio di libertà, il luogo transizionale in cui Gordie, Chris, Teddy e Vern giocano a fare gli adulti tra una partita a poker e una sigaretta.
Gordie con un grave lutto familiare, Teddy con un padre alcolista violento, Chris “il capo” con una brutta reputazione in paese (una sorta di capro espiatorio, su cui ricade il malessere degli adulti), e Vern, il più naïf, da cui partirà l’avventura: “Ragazzi, vi va di vedere un cadavere?”.
Ognuno di loro ha una storia familiare complessa e un carattere unico e prezioso che contribuisce alla vitalità e profondità della comitiva nel suo insieme, creando la forza del “molteplice nell’uno”, come scrive Morin.
Al gruppo dei ragazzi fanno dinamicamente da contraltare quello dei più grandi, i bulli, e il gruppo degli adulti, i genitori. Il viaggio si snoda durante il weekend del Labour Day che in maniera didascalica possiamo facilmente interpretare come il lavoro psicologico – lo sfondo inteso gestalticamente, dove figura e contesto si influenzano a vicenda. Se si chiama “lavoro” c’è un motivo: il lavoro psicologico ha tutte le caratteristiche dello sforzo operaio, l’originalità artigianale, la responsabilità di una funzione sociale.
Dalla familiare e ristretta Castle Rock, i quattro cominciano il viaggio spaziando in terre sconosciute e attraversando la tensione delle classiche peripezie di ogni storia che si rispetti...

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Dalla sublimazione alla sublimatio